PAGINA A CURA DI
Chiara Bussi
La conquista della Chrysler per mano della Fiat. O l'ingresso della Tod's nel capitale dei grandi magazzini Saks. E il prestigioso showroom inaugurato poco più di un mese fa dalla Scavolini a New York. Non ci sono solo i Bric nei pensieri del made in Italy. Anzi, negli ultimi due anni è in atto una progressiva riscoperta dell'America: il fenomeno accomuna colossi, ma non sfugge nemmeno alle "multinazionali tascabili" e alle piccole e medie imprese. Complice la volatilità del tasso di cambio che rende meno convenienti le esportazioni e suggerisce una presenza più stabile nel paese.
«Anche le Pmi – spiega Aniello Musella, direttore dell'Ice negli Usa – stanno scoprendo quanto è essenziale investire all'estero: per crescere non basta più solo esportare, ma bisogna internazionalizzarsi». Così, con un occhio al biglietto verde e uno al bilancio, dice Musella, «fanno shopping oltre oceano o stringono alleanze con i fornitori per accorciare la catena oppure avviano nuove attività produttive, sfruttando le potenzialità della ricerca».
Secondo gli ultimi dati disponibili, nel 2009 sono stati 51 i progetti di nuove attività avviati rispetto ai 43 dell'anno precedente, per un valore in crescita del 19% a circa 635 milioni di dollari, mentre le imprese Usa a partecipazione italiana sono circa 2.300, con un fatturato cumulato di 32,2 miliardi di euro.
Per compiere il grande passo la vicinanza con il mercato è «cruciale», sottolinea Daniel Fishman di Positivo, società di consulenza italiana che con il partner americano Donato Grosser accompagna da anni le Pmi italiane negli Usa. «Per scegliere la zona di insediamento – spiega – bisogna poi vedere se è facile trovare dipendenti capaci e se sono necessarie materie prime. Da non sottovalutare anche la dimensione del territorio: più che un paese gli Usa sono un continente, con la tassazione cha varia da stato a stato e da provincia a provincia e la possibilità di ottenere incentivi per gli investimenti». La scelta della sede varia a seconda dei settori. «Per una Pmi – precisa Fishman – ci possono essere più opportunità nel Kansas che a New York, perché i prodotti italiani sono meno conosciuti e c'è meno concorrenza. Ma è la Grande mela che risponde meglio all'esigenza di lanciare mode, soprattutto per prodotti ad alto contenuto di design». Per chi produce macchinari per il settore vinicolo può invece rivelarsi strategico essere presenti in California, dove viene realizzato l'80% del vino Usa. L'industria farmaceutica, invece, fa rotta sul New Jersey.
Spesso la presenza sul mercato porta a moltiplicare i vantaggi. È il caso di Meccanotecnica Umbra di Campello sul Clitunno (Perugia) che produce tenute meccaniche per pompe idrauliche. Nel 2009, sulla scia della Fiat, la società ha acquistato da un fondo di private equity la concorrente texana Cyclam Nordamerica (oggi Meccanotecnica Usa) e annovera tra i propri clienti Ford, Gm e Chrysler. «Per noi – afferma il general manager Carlo Pacifici – era fondamentale entrare sul mercato e presidiarlo». Non solo: la filiale Usa controlla a sua volta una società in Messico, dove vengono confezionati i prodotti destinati al Nord America. «Con un notevole risparmio – dice Pacifici –, perché in virtù degli accordi di libero scambio non paghiamo dazi in entrata e in uscita».
Con lo sbarco oltreoceano, invece, il Biocell Center di Busto Arsizio (Varese) ha trasformato i sogni di ricerca in realtà. È trascorso poco più di un anno dal 22 ottobre 2009, quando la piccola società lombarda ha aperto una sede-laboratorio a Medford (Boston). «Il cervello degli Usa è qui, con i fiori all'occhiello del Mit e di Harvard» dice con orgoglio il vicepresidente Edoardo Borgo, 29 anni. Uno staff di otto dipendenti, guidati dalla 39enne Kate Torchilin, che lavora per conservare le cellule staminali prelevate dal liquido amniotico delle donne in gravidanza in vista di un potenziale utilizzo terapeutico futuro nel campo della medicina rigenerativa e terapia cellulare. Le difficoltà non sono mancate. «Quanto a burocrazia – dice Borgo – per certi versi negli Usa sono più complicati di noi. Ma una volta protocollato tutto seguendo alla lettera le indicazioni, nel giro di un mese eravamo pronti per partire. Qui chi vuole fare business e innovare viene accolto a braccia aperte».
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