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Newsletter del 27 Giugno 2011

«Incentivi sugli aumenti finalizzati all'innovazione»
di Antonella Olivieri

Una volta era il private equity che alimentava il flusso delle matricole verso la Borsa. Oggi – lo dimostrano gli ultimi casi di quotazioni mancate – è diventato invece il più pericoloso concorrente, disposto a pagare prezzi che il mercato non accetta di pagare. «È un momento contingente, non la rottura di un idillio», secondo Massimo Capuano, ad di Centrobanca e per oltre un decennio ceo di Borsa italiana, di cui aveva preso la guida subito dopo la privatizzazione.
È il private equity che è diventato un problema per la Borsa o è la Borsa che è diventata un problema per il private equity?
È un discorso che parte da lontano. Dopo gli anni dell'euforia gli investitori sono diventati più demanding sul prezzo, richiedono cioè l'Ipo-discount anche in presenza di società valide e ben gestite. E questo non viene sempre accettato a cuor leggero dall'imprenditore. Dall'altra parte ci sono gli operatori di private equity internazionali che hanno l'opportunità di impostare investimenti importanti, mentre altri hanno l'esigenza di realizzare il portafoglio: questo favorisce lo sviluppo di un mercato secondario del private equity.
Ma non si rischia di gonfiare le valutazioni delle aziende, con la conseguenza che le si carica di troppa leva, alla lunga pericolosa per la sopravvivenza stessa dell'azienda, come insegna il caso Seat?
In teoria queste sono transazioni tra operatori super-professionali. Se comprano a valori assolutamente fuori mercato, poi sono i primi ad avere problemi. C'è da dire che la valutazione di un'azienda ha alcuni elementi di soggettività. Per esempio, un operatore di private equity può essere disposto a pagare più di altri perchè magari ha in portafoglio altre società che consentono aggregazioni sviluppando sinergie. Poi, è vero, possono esserci casi problematici, perchè in nessun portafoglio di private equity la percentuale di successo è del 100%, ma in molti casi il private equity ha fatto bene, ha aiutato le imprese a crescere e poi se ne è uscito con tranquillità.
Non sarebbe opportuno introdurre qualche correttivo per evitare gli eccessi?
Il punto sarebbe riuscire a sviluppare anche nel private equity una specializzazione sulle dimensioni delle aziende italiane, che sono prevalentemente Pmi. Per inciso, Centrobanca ha due fondi di private equity focalizzati proprio sulle società di piccole e medie dimensioni. Imporre vincoli all'operatività del private equity trovo invece sia improprio. È notorio che le nostre imprese hanno in media un eccesso di debito a breve termine associato a un problema di sottocapitalizzazione e il private equity i capitali li fornisce. Introdurre limiti è controcorrente.
Comunque siamo sempre lì: perchè non si allunga il listino?
È un problema annoso, ma le imprese hanno bisogno di trovare un ambiente favorevole per trovare la strada della crescita. L'ho sempre detto, anche da amministratore delegato di Borsa italiana: la Borsa è uno strumento non un obiettivo. È compito delle autorità, della Borsa, delle banche, dei consulenti creare un ambiente favorevole. Senza dimenticare gli incentivi fiscali che hanno prodotto ottimi risultati con la legge Tremonti, in particolare, e la superDit: dopo questi provvedimenti non si è visto più nulla. Occorrerebbe invece riequilibrare il trattamento fiscale di debito e capitale, per esempio agevolando le ricapitalizzazioni finalizzate alla crescita e all'innovazione. In ogni caso non c'è concorrenza tra banche e Borsa.
C'è un valore a restare in Borsa nonostante le incertezze?
Senz'altro. La Borsa per esempio è poco sfruttata come canale di finanziamento. Si ricorre al mercato in fase di Ipo, ma poi non ci si pensa più, non rientra nella mentalità delle nostre aziende. E poi la Borsa consente di disporre di "equity currency", la moneta di carta utile per la crescita esterna, che chi non è quotato non ha.
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