Le Pmi italiane non fanno innovazione? Non è vero. Anzi, anche nei peiodi di crisi si sforzano di trovare nuove soluzioni. Forse sono gli strumenti di indagine tradizionali che non sanno cogliere quanto avviene al loro interno. Così si scopre che negli ultimi due anni un terzo delle aziende manifatturiere sotto i 20 dipendenti ha introdotto almeno un elemento di innovazione.
Lo sostiene una ricerca condotta da Fondazione Impresa, effettuata su un campione di 600 Pmi sparse su tutto il territorio, delle quali il 29,3% ha risposto in modo affermativo.
«Nonostante la crisi e benché accusate di nanismo e di eccessiva gestione familiare, le piccole imprese manifatturiere sono innovative - afferma Daniele Nicolai, responsabile dello studio -. Piuttosto, gli indicatori usati di frequente, come la spesa in R&S e il numeri di brevetti registrati, non sono sempre sufficienti a determinare il grado di innovazione in un contesto produttivo fondato sulla piccola impresa».
I dati affermano che il tasso maggiore di aziende che hanno innovato è al Nord (33%), contro il 26% del Centro e il 25% del Sud. Hanno optato in prevalenza per innovazioni "di processo" (56,8%), ossia tutte quelle novità che si propongono di migliorare l'efficienza produttiva, riducendo i costi. «Parliamo, in questi casi, di operazioni concrete, come l'acquisto di un nuovo macchinario» spiega Nicolai. A queste, spesso si è accompagnata un'innovazione "di prodotto" (nel 44,3% dei casi). Se un'impresa su quattro ha ampliato la propria gamma e una su tre ha solo apportato migliorie a prodotti già esistenti, spicca un 20,5% di imprese che affermano di aver realizzato manufatti che rappresentano una novità assoluta per il mercato di riferimento. E un 12,8% che ha sviluppato una nuova gamma per rispondere all'esigenza di fornire prodotti eco-sostenibili.
«Uno spunto interessante riguarda gli attori dell'innovazione - aggiunge Nicolai -. Nella grande maggioranza dei casi, il 73%, è stata messa a punto direttamente dal titolare o comunque dai dipendenti e solo in pochi casi se n'è occupato un apposito ufficio R&S (13%) o un istituto esterno (10%). Questo è positivo, perché l'iter deve essere seguito da chi conosce nei dettagli il processo produttivo. Ma significa anche che le Pmi avvertono come distanti le università e le società di consulenza: la sensazione è che le Pmi sarebbero disposte a collaborare, se qualcuno mettesse a disposizione strumenti ad hoc per le loro dimensioni».
La spesa per l'innovazione spazia da un valore inferiore a 10mila euro (54,5% dei casi) a un importo compreso tra 10 e 50mila (23,4%) fino a pochi casi superiori a questa soglia (22,1%). E i risultati sono buoni, dal momento che l'88% sostiene di aver ottenuto una ricaduta positiva sul fatturato, per il 52% l'innovazione ha permesso di allargare il proprio mercato e in un caso su tre le novità introdotte consentono di lavorare in subfornitura per le grandi imprese. Si tratta di una media nazionale, perché la percentuale sale addirittura al 47,9% nel Nord-Est. Pochissime volte, però (11,9% dei casi), questo si è tradotto nel deposito di un brevetto, dal momento che la maggior parte delle Pmi lo ritiene un passaggio non necessario.
Certo, il quadro non è del tutto roseo: resta una fetta ampia di aziende che non ha promosso alcuna innovazione. La metà di queste sostiene di non aver potuto realizzare alcunché a causa della crisi, ma c'è un 42% che ammette semplicemente di non essere interessato a farlo. E alla domanda "Pensa di apportare innovazioni nei prossimi due anni?", ha risposto "sì" il 35,2% delle Pmi manifatturiere (il 39% al Nord, il 27% al Centro e quasi il 35% al Sud).
© RIPRODUZIONE RISERVATA