di Mar.B.
L'Italia difende nel mondo il primato nel tessile e cresce in alcuni settori ad alta tecnologia. Nonostante il credit crunch, i tempi di pagamento eterni rispetto agli altri Paesi e una domanda interna sempre più in crisi resistono alcune eccellenze italiane tradizionali e nuove ne avanzano. Secondo il Centro studi di Confindustria la competitività italiana è senz'altro in calo se «misurata su prezzi e costo del lavoro per unità prodotto». Ma il Paese riesce comunque a presidiare alcuni fortini, ma anche a mutare la sua specializzazione merceologica. Una dimostrazione? «I beni legati alla moda sono passati dal 21,5% dell'export nel 1991 al 13,9% nel 2011 mentre i prodotti con maggiore intensità tecnologica ed economie di scala sono saliti dal 60,8% al 66,9 per cento».
A misurare le performance dei singoli Paesi a livello settoriale è il «trade performance index» (un indice basato su 22 indicatori): se l'Italia in base al «Tpi» cede il passo negli elettrodomestici, si mantiene forte nella meccanica non elettronica, nei manufatti di base e nei «prodotti diversi». Tutti settori, questi, dove siamo secondi solo alla Germania. Manteniano invece i nostri storici primati su tessile, abbigliamento, cuoio, pelletteria e calzature.
Insomma l'Italia «perde quota», «arretra», ma la spinta verso la rispecializzazione settoriale in questi anni di crisi è stata comunque forte: «Questi primati sono stati ottenuti grazie alla trasformazione del manifatturiero e all'innalzamento del valore aggiunto che sono solo in parte rispecchiate dalle statistiche settoriali, perché sono in maggioranza avvenuti dentro i settori e dentro le stesse imprese», avverte Luca Paolazzi, Direttore del Centro studi Confindustria. Che guarda anche «al massiccio riorientamento delle vendite all'estero verso i mercati di sbocco più promettenti».
I dati che emergono dall'analisi del CsC sembrano dunque smentire «l'interpretazione di un'industria italiana spiazzata, nel suo insieme e in tantissimi comparti, dai concorrenti esteri». Piuttosto – avverte il Centro studi – la «sua sofferenza» sembra derivare «prevalentemente dalla debolezza della domanda interna». Insomma la recessione pesa, eccome.
Sul fronte dell'export le imprese italiane fanno però ancora fatica a presidiare i mercati geograficamente più lontani, come Cina e India, che sono i più dinamici. Da qui il monito a incentivare «massicci investimenti nell'innovazione e quindi nel manifatturierio che ne è l'anima e perciò il motore della crescita».
In Italia, nonostante la quota delle imprese che svolgono attività innovativa non sia inferiore agli altri paesi industrializzati, la spesa in ricerca e sviluppo è bassa (solo il numero di brevetti per abitante è meno della metà di quello della Germania). Per questo, secondo il CsC, occorre ripartire dai «molti punti di forza» dell'industria manifatturiera italiana (automotive, macchinari e apparecchiature) per «affrontare le debolezze accumulate nei settori dove l'innovazione è più legata ai progressi della conoscenza scientifica».
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