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Newsletter del 21 Settembre 2015

Il futuro delle toghe tra carrierismo e modernità

Su una cosa sono tutti d’accordo: nulla sarà più come prima. La futura classe dirigente della magistratura – Procuratori, Aggiunti, Presidenti di Corti e Tribunali - sarà diversa e, a cascata, diverso sarà il modello di magistrato. Ma le strade si dividono sulla qualità di questo cambiamento. Che, a seconda dei diversi punti di vista, assume le sembianze del «dirigente moderno, efficiente ed esperto» o, al contrario, «dell’uomo senza qualità, carrierista e burocrate». A dispetto del voto unanime con cui il Csm ha approvato a fine luglio la riforma della dirigenza, l’universo giudiziario è infatti spaccato e inquieto sul futuro che l’attende. Anche perché sullo sfondo c’è il problema scottante dell’autogoverno e della sua crisi di credibilità, finora rimosso per “difendersi” dal rischio di normalizzazione che ha segnato il ventennio berlusconiano ma che continua ad agitare le notti dei magistrati anche nel post-berlusconismo. Alibi o necessità, non è più tempo di rimozioni e i panni non si possono lavare solo in casa poiché il modello di giudice del futuro non è “affare” di categoria ma questione democratica.

La riforma della dirigenza giudiziaria va quindi letta in chiave non solo giuridica ma anche politico-istituzionale per coglierne significato, implicazioni e proiezioni nel tessuto democratico del Paese. La cronaca della sua approvazione ha invece lasciato nell’ombra quest’aspetto o lo ha ridotto alla contrapposizione tra «arbitrio» del passato e «oggettività» del futuro, tra «trasparenza» delle nuove scelte e «vecchie logiche di appartenenza». Anche tra i magistrati il dibattito è rimasto confinato nelle mailing list, forse per paura che critiche e autocritiche possano essere cavalcate all’esterno da un revanscismo politico sempre in agguato.

Nata dalla richiesta “dal basso” – trasversale a tutte le correnti – di una maggiore «prevedibilità» delle decisioni sui capi degli uffici, la riforma riflette l’indiscutibile esigenza di arginare scelte frutto di logiche spartitorie tra le correnti nonché il peso di una componente laica che, nella perenne transizione politica, si presenta sempre più spesso come blocco unitario.

Mani legate

Ma il testo – e la sua genesi – tradisce una resa a quelle logiche: l’incapacità di emanciparsene rivendicando la responsabilità di decisioni chiare, razionali, motivate, e perciò accettabili anche se criticabili. Tradisce, insomma, la fragilità di un Csm che, per recuperare credibilità, sceglie di ingabbiarsi formalmente in un recinto, finendo così per assomigliare più a una Prefettura che a un organo costituzionale di autogoverno autonomo. Per il timore di non resistere all’impulso spartitorio, si lega le mani. E invece di un messaggio forte sulla qualità del servizio e della tutela dei diritti – che lo chiamerebbe alla responsabilità di scelte motivate su esperienze, attitudini, qualità e storia professionale dei magistrati – preferisce mandare il messaggio rassicurante di un percorso vincolato che garantisce benefici di carriera. Ed è questo messaggio – per quanto attutito dalla mediazione di Mattarella – l’aspetto politico più critico – e denso di incognite – della riforma.

Fedeli al mandato sulla «prevedibilità» delle decisioni, i togati si sono messi al lavoro dall’ottobre scorso. Il primo approdo è stata la creazione di una struttura burocratica della carriera, basata su «indicatori specifici preminenti» che riducevano quasi a zero i margini di valutazione del Csm, tagliando fuori, ad esempio, profili professionali eccellenti se privi di un curriculum strettamente aderente a quegli indicatori. L’impostazione iniziale è stata poi mitigata da una serie di correzioni, molte suggerite dal ministero della Giustizia e soprattutto dal Quirinale, preoccupato che l’eccessivo dettaglio della proposta consegnasse, «mani e piedi», il Csm ai Tar.

La mediazione

La “tavola” di regole approvata il 31 luglio è dunque figlia di una mediazione che vincolerà le scelte dei prossimi anni, a cominciare dalle 200 nomine in agenda da qui alla fine del 2015, tra cui la Procura di Milano. E come ogni mediazione, al di là delle dichiarazioni ufficiali, scontenta tutti: per i fautori dell’impostazione iniziale, la riforma è stata annacquata «dai poteri forti della magistratura» e quindi, nei fatti, cambierà poco o nulla; i critici temono invece che, poiché nei prossimi tre anni le nuove regole saranno applicate da chi le voleva più rigide, nei fatti si consoliderà un’interpretazione più burocratica di quella voluta dalla mediazione.

«Non c’è alcun rischio di questo genere» assicura Claudio Galoppi togato di Magistratura indipendente nonché relatore della riforma. Ma Giuseppe Cascini, pm romano con una storia di leader in Magistratura democratica e nell’Anm, vede solo il «trionfo della mediocrazia e della deresponsabilizzazione del Csm».

«Anzitutto le nuove regole non disegnano un profilo unico di dirigente – puntualizza Galoppi –perché i requisiti attitudinali variano per tipologia e dimensioni dell’ufficio. Per i piccoli e medi, che sono l’85% del totale, abbiamo esaltato il requisito del lavoro giudiziario e di come è stato svolto, il che garantisce la massima apertura all’accesso: l’esatto contrario del cursus honorum di cui siamo stati accusati falsamente». Galoppi spiega che se finora un presidente di sezione aveva un titolo in più per fare il presidente di Tribunale, ora sarà sullo stesso piano di un giudice “semplice” che, però, dimostri di aver contribuito in modo efficiente all’organizzazione dell’ufficio. Per il restante 15% degli uffici, quelli di grandi dimensioni, viene invece richiesta una «specifica» capacità manageriale e un’esperienza già maturata in un ufficio direttivo, con il conseguimento di determinati risultati. «Abbiamo quindi creato un sistema di “statuti differenziati” a seconda dei diversi mestieri del dirigente» dice Galoppi, ricordando, tra le novità, che nel giudizio di comparazione – in cui finora vinceva il migliore – adesso si farà riferimento anche a indicatori attitudinali specifici «che avranno un peso maggiore».

Pari opportunità

Il capitolo “pari opportunità” è stato tormentato perché il primo testo era troppo penalizzante per le donne, ormai più della metà delle toghe ma sempre indietro nei posti di vertice. L’Associazione magistrate che lo ha contestato ha trovato un alleato nel ministero e il testo è stato migliorato, anche se continua a suscitare perplessità. Galoppi rivendica di aver recepito le indicazioni del Comitato pari opportunità, e come elemento di «attenzione» segnala, fra l’altro, che per ottenere la conferma di un posto direttivo (dopo 4 anni) ora si richiederà anche «l’aver adottato ogni misura per far rispettare nell’ufficio le pari opportunità».

«Politicamente – conclude – viene mantenuta in capo al Csm una discrezionalità di valutazione, che però è guidata da regole precise e predeterminate, come ci chiedeva tutta la magistratura». Quindi «il dirigente del futuro sarà un dirigente moderno, che guarda all’efficienza, all’organizzazione, alla qualità della giurisdizione e che è capace di aperture all’esterno del suo ufficio. Nessun rischio di carrierismo, insomma».

Cascini non la vede così. «Nonostante alcune correzioni, la filosofia di fondo resta quella del cursus honorum in cui conteranno le “medagliette” accumulate dal magistrato durante la carriera invece che attitudini specifiche, professionalità e idoneità in concreto a dirigere un ufficio». “Medagliette”, per Cascini, sono le esperienze ordinamentali e organizzative (Commissione flussi, Comitato pari opportunità, Refrente informatica o formazione, deleghe della dirigenza, Csm, Consigli giudiziari e così via) considerate dalla riforma indicatori per l’accesso alla dirigenza, che ora verranno sommati, più che valutati.

Il ragionamento del pm romano parte dal «fallimento» del sistema di controllo sulla professionalità dei magistrati, in particolare dei dirigenti. «Dal 2006 a oggi si contano sulle dita di una mano i casi di direttivi o semi-direttivi che non abbiano superato il giudizio quadriennale di conferma: tutti, o quasi, bravissimi e promossi. In questo contesto, introdurre un criterio che attribuisce “speciale rilievo” al positivo esercizio delle funzioni direttive o semi-direttive significa costruire un modello verticale di carriera in cui l’accesso ai posti di vertice sarà, di fatto, quasi sempre appannaggio di chi ha già ricoperto un incarico, senza un effettivo giudizio sul “come” l’abbia svolto». Insomma, un modello di carriera fondato esclusivamente sulla dirigenza senza demerito, che evoca, secondo Cascini, il triste modello dell’anzianità senza demerito, che per anni ha guidato le nomine dei dirigenti con «guasti rilevanti per la qualità del servizio». «Sarà il trionfo della mediocrazia – dice Cascini –, particolarmente penalizzante per le donne, che sono solitamente meno inclini a sacrificare esigenze familiari per conquistare posti direttivi lontano dall’ufficio di provenienza e preferiscono la specializzazione in un settore piuttosto che la “pluralità di esperienze”, diventato ora un indicatore della qualità del lavoro giudiziario e quindi delle attitudini».

Rischio burocrazia

Giustamente i magistrati sono insoddisfatti per le modalità di selezione della classe dirigente, «ma bisognava dare una risposta politica “alta”, costruendo un modello professionale “condiviso” del magistrato e del dirigente», sostiene Cascini. Per esempio, «coinvolgendo nella valutazione della qualità del lavoro svolto i colleghi dello stesso ufficio e di quelli “dirimpettai” (la Procura per il Tribunale, e viceversa), nonché gli avvocati. La risposta del Csm è invece burocratica e deresponsabilizzante: più che la qualità del servizio contano le aspettative di carriera dei magistrati, e il possesso di titoli formali finirà sempre per prevalere su un giudizio concreto sulle effettive attitudini dei candidati». Anche il rilievo attribuito al lavoro giudiziario «è in realtà fuorviante: sia perché le valutazioni quadriennali di professionalità dipendono prevalentemente dai rapporti del capo dell’ufficio, il che ne accentua il potere gerarchico e favorisce il conformismo; sia perché la riforma attribuisce “speciale rilievo” agli incarichi organizzativi su delega del dirigente, indipendentemente da come l’incarico sia stato svolto, e anche questo accentua il potere gerarchico dei capi, rendendo burocratico e formalistico il giudizio». Il risultato? «Una corsa a privilegiare la raccolta dei titoli formali necessari a fare carriera, a occuparsi di statistiche invece che della qualità del servizio e della tutela dei diritti, a evitare contrasti con i dirigenti, dai cui pareri e incarichi dipende la carriera». Il futuro? «Una magistratura più conformista e burocratica, più verticistica e corporativa».

Visioni così diverse non possono essere liquidate come scontro interno o di potere o dettate dalla ricerca del consenso. Dimostrano invece quanta incertezza vi sia sulle «magnifiche sorti e progressive» della magistratura. Ma persino il pessimismo cosmico di Leopardi ha trovato sulla sua strada una ginestra…

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