Gli italiani, oltre che santi, poeti e navigatori, sono anche un popolo di mecenati? La domanda, fino a un paio d’anni fa, avrebbe avuto il sapore della provocazione: nel mezzo della crisi più lunga e profonda dell’ultimo secolo, più che alla filosofia illuminata dell’età augustea ci si ispirava al “primum vivere” di hobbesiana memoria. Anche le diverse indagini sulla generosità dei donatori relegavano costantemente le erogazioni liberali per i beni artistici e culturali agli ultimi posti tra le scelte dei benefattori.
Oggi, invece, il clima che si respira intorno a questo argomento è completamente diverso. Quando, il 26 maggio scorso, dal palco dell’assemblea di Confindustria il ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini, ha invitato ciascun imprenditore ad adottare un monumento, la proposta non ha fatto sobbalzare nessuno sulla sedia, anzi è sembrata in grande sintonia con il mood della platea. E a confermarlo ci sono i dati del crescente successo dell’art bonus, l’agevolazione fiscale del 65% per chi eroga contributi alla cultura: 77 milioni raccolti in un anno e mezzo da oltre 2.700 donatori (dei quali due terzi sono privati cittadini), con una progressione impressionante, visto che, nell’ottobre 2015, i milioni incamerati erano 34 e gli apprendisti mecenati meno di 800.
Che cosa è intervenuto, in così poco tempo, per modificare tanto visibilmente comportamenti e aspettative? Una prima risposta si trova proprio nei dati appena richiamati: la leva fiscale sta funzionando bene. L’art bonus consente un credito d’imposta importante, soprattutto per le grandi imprese (per le persone giuridiche il limite è il 5 per mille dei ricavi annui, mentre per le persone fisiche è il 15% del reddito imponibile). E la norma non è un fiore isolato in un campo incolto: la mano pubblica si sta facendo sentire molto più che in passato in tema di tutela dei beni monumentali e culturali. Tra le agevolazioni di natura tributaria si è aggiunto, infatti, da quest’anno il 2 per mille per le associazioni culturali, non ancora noto a tutti, anche per la sovrapposizione ad altri “per mille”, ma potenzialmente in grado di rimpinguare ulteriormente le entrate delle organizzazioni.
Tutti sostenitori del bello per convenienza fiscale, allora? Non proprio, quanto meno a giudicare dal parere dei fundraiser professionisti, gli “intermediari” tra i potenziali mecenati e le opere da salvare. «Il tema della convenienza tributaria è importante, ma non spiega tutto», osserva Marianna Martinoni, consulente in fundraising per lo sviluppo del non profit e già dirigente nazionale dell’associazione di categoria Assif, con una lunga esperienza proprio nel settore culturale. «Negli ultimi anni – le fa eco Elisa Bonini, fondatrice e ceo di Sillabarte, società specializzata nel fundraising culturale – si sono diffuse modalità di partecipazione nuove, riassumibili nella formula “amici di…”, ossia gruppi di sostenitori di un museo, un teatro, un’orchestra o un sito, che prendono parte alla vita di quel bene culturale non solo con donazioni, ma anche con attività di fruizione inedite. Le realtà con gruppi di sostenitori erano l’anno scorso 1.206, secondo il dato contenuto nel rapporto Unioncamere-Fondazione Symbola, ma il loro numero sta salendo rapidamente».
Come rafforzare il trend? Per la Martinoni «è il momento di dare importanza ai temi della trasparenza e della valutazione d’impatto che gli enti e le attività culturali sono in grado di generare sui territori, così da incoraggiare ulteriormente i potenziali sostenitori. Occorre ampliare tutti i canali, dal crowdfunding ai lasciti, perché c’è un potenziale enorme ancora da valorizzare. Per questo serve che gli enti investano in figure professionali competenti, in grado di maneggiare bene le norme fiscali, ma anche e soprattutto i processi che gli anglosassoni riassumono nell’espressione “Donor Care”».
elio.silva@ilsole24ore.com
© RIPRODUZIONE RISERVATA