Focus. Thailandia e Vietnam in prima fila nell'attrarre investimenti per realizzare beni destinati al mercato di Pechino e non solo
È il 4 gennaio, soltanto tre giorni dopo l'entrata in vigore dell'area di libero scambio tra i sei più avanzati membri dell'Asean e la Cina. I vertici di Samsonite annunciano: la produzione in Europa e in Cina verrà ridotta, quella in Thailandia e in Vietnam verrà aumentata. Bangkok ora non si limiterà a fabbricare portafogli e borsette da esportare in Cina e India, ma si cimenterà anche nella produzione di valigie. Le ragioni? La crescita del costo del lavoro nell'ex Celeste impero, i dazi zero fra Thailandia e India, e naturalmente l'area di libero scambio tra Asean e Cina. La più grande esistente al mondo per numero di abitanti, la terza per valore degli scambi dopo il colosso Ue e il Nafta nordamericano.
Passa qualche giorno, e arriva un nuovo annuncio: il gigante cinese degli elettrodomestici Haier nel 2010 incrementerà la produzione di lavatrici, congelatori e frigoriferi nei suoi stabilimenti in Thailandia, così da poter usufruire della tariffa zero portata dall'area di libero scambio Asean. Da tempo nei parchi industriali thai operano l'inglese Triumph e i giapponesi Toyota e Mitsubishi, mentre in Indonesia e in Vietnam c'è l'italiana Perfetti. Da poco, dopo la Thailandia, la Danieli ha investito alle porte di Ho Chi Minh City, mentre la Volkswagen ha posato gli occhi su Giakarta. E proprio ieri la cinese Geely ha annunciato di voler aggredire il mercato dell'auto indonesiano vendendo a 13.300 dollari il suo modello a cilindrata 1.500 che viene assemblato direttamente in loco.
Tasselli. Con potenziale effetto domino: perché l'abbattimento delle tariffe tra Asean e Cina non ha creato solo un'area da 1,8 miliardi di consumatori e 5.800 miliardi di Pil. Sta anche ridisegnando la mappa della produzione: con aziende occidentali che preferiscono il Sud-Est asiatico alla Cina per i loro nuovi investimenti. E addirittura con i cinesi che prendono sul serio la delocalizzazione verso Sud.
Per Tiziano Furlan, vicepresidente di Mda Consulting, la competizione si è inasprita: «All'interno dell'Asean, Thailandia e Vietnam sono in prima fila quanto a capacità di deviare il flusso degli investimenti. Sono entrambi paesi grandi, e sono tecnologicamente abbastanza avanzati da entrare in competizione con la Cina. Anche la Malaysia ha una discreta specializzazione tecnologica, ma è decisamente meno popolosa rispetto agli altri due, che hanno un certo peso anche come consumatori».
Di nuovi percorsi produttivi si parla anche all'Asian development bank (Adb), ma qui l'approccio si basa meno sulla competizione e più su un discorso di filiera integrata. «Sarebbe semplicistico aspettarsi una migrazione della produzione dalla Cina ai paesi Asean», sostiene Ganeshan Wignaraja, principal economist alla Banca per lo sviluppo dell'Asia. E spiega che Pechino da tempo non è più solo bassi costi di manodopera per una produzione di massa, ma anche tecnologia crescente, e una sempre maggiore conoscenza degli standard internazionali che stanno spostando la sua capacità competitiva su un gradino più alto. La vera sfida dei paesi Asean non sta dunque nel fare le scarpe alla Cina, ma nell'andare al suo traino: «Devono sapersi inserire nel ciclo produttivo cinese, specializzandosi in una parte della manifattura – dice Wignaraja –. Già oggi alcuni lo fanno: la Thailandia per l'auto (è chiamata la Detroit dell'Asia), o la Malaysia per l'elettronica. Ma il traguardo sarà centrato solo se si doteranno di infrastrutture energetiche e logistiche all'altezza». Pechino lo sa, che si tratta di un gioco win-win, e per questo ha deciso di contribuire di tasca propria allo sviluppo del Sud-Est asiatico: tra cooperazione e prestiti, nei prossimi due anni sono in arrivo 25 miliardi di dollari.
Ma l'alleanza Cina-Asean conta anche una serie di detrattori. Tra questi il governo dell'Indonesia, che è sceso in campo per proteggere le proprie industrie più obsolete dalla concorrenza cinese. Qui l'italiana Perfetti opera fin dai primi anni 90, e non è preocupata. «L'area di libero scambio tra Asean e Cina – racconta Luca Parodi, vicepresidente della business unit Asia Pacific di Perfetti – per noi vuol dire aromi meno cari del 15%. Quel che mi preoccupa, semmai, è l'implementazione dell'abbattimento delle tariffe». Fattori burocratici da non sottovalutare, come ricorda anche Alex Capri, partner Kpmg a Hong Kong: «Il fatto di operare in un paese che è parte di un'area di libero scambio non significa che i vantaggi delle tariffe zero si applichino a prescindere. A entrare in gioco sono le cosiddette regole d'origine, che nel caso dell'area Cina-Asean impongono una soglia di produzione locale del 40%». Significa che non basta venire qui per esportare a tariffa zero, ma bisogna anche produrre - o cercare - in loco buona parte dei componenti del bene in questione.
La terza più grande area di libero scambio al mondo ridisegna infine gli equilibri del continente asiatico. «L'India non perderà competitività – scommette Wignaraja – perché ne beneficerà comunque attraverso l'accordo di libero scambio che ha con l'Asean». I grossi accordi mancanti semmai sono altri, e riguardano la Cina con il Giappone e con la Corea del Sud. «Se Tokyo – conclude l'economista dell'Adb – non ha da temere dalla concorrenza cinese, perché la sua tecnologia è di livello davvero alto, Seul invece rischia una competizione pesante. La Cina, del resto, fa già sentire il suo fiato sul collo dei coreani nella cantieristica e nell'elettronica».
micaela.cappellini@ilsole24ore.com
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