CAPITALISMO FINANZA E ISTITUZIONI
Dove c'è oligarchia, c'è sfiducia
di Carlo Carboni
Credo sia del tutto inutile oggi evocare il demone del capitalismo finanziario: sarebbe addirittura dannoso per la sinistra rispolverare la sua tradizionale avversione ad esso. Ma è anche sterile puntare il dito inquisitore contro la politica e lo Stato: farebbe male soprattutto alla destra insistere su un liberismo con evidenti limiti nella regolazione dei mercati finanziari. Più opportuno sarebbe ragionare sui pezzi più importanti che compongono il complesso puzzle che abbiamo di fronte: ad esempio, sui protagonisti della crisi, su quegli spezzoni di nuova classe dirigente che ha "movimentato" e deciso in questo quindicennio.
Manager e politici sono tra le professioni che, negli ultimi 15 anni, sono cresciute a livello percentuale più di altre: stiamo parlando di oltre 500mila soggetti in Italia, se consideriamo che i politici sono da 300 a 400mila, i manager privati intorno ai 150mila, ai quali vanno aggiunti dirigenti e manager nel settore pubblico (all'incirca 20mila). Sono le professioni emergenti, con compensi "di punta" fantastici, che hanno acceso l'immaginario di chi pensa al proprio futuro professionale; anche nei consumi hanno contribuito a portare nuove tendenze, privilegiando quelli più esclusivi. Manager e politici, con le loro élite, hanno insomma costituito un segmento importante delle nostre classi dirigenti del recente passato e perciò del presente.
Vale la pena riflettere su che cosa accomuni queste professioni, oltre il trend emergente, che ha prodotto delle élite composte da veri e propri "uomini d'oro". Un primo fattore comune è che le élite di queste professioni - Ceo e ceti politici ristretti - fanno parte di quella classe dirigente a cui è esplicitamente richiesto di esserlo. È richiesto al manager di pilotare e gestire una società, al politico mediante un mandato elettorale. In secondo luogo, il vero comune denominatore che accomuna manager e politici e i loro leader sono le relazioni e, più precisamente, la qualità delle relazioni e delle conoscenze nei labirinti istituzionali dell'autorità e del potere, nei salotti che contano, eccetera. Per cui spesso queste professioni acquistano l'ultrapotere dell'ubiquità nei ruoli, in virtù della forza delle relazioni, segnalata, ad esempio, dalla consistenza dei manager tra i parlamentari (porte girevoli) e viceversa (pantouflage).
Non è stato solo il credito educativo la loro carta vincente, ma piuttosto le relazioni guadagnate "sul campo". In termini sociologici, questa capacità relazionale è il capitale sociale individuale. Sono quindi due professioni di rete, destinate - con le loro élite - a governare il decision making di network strategici (economici, politici, informativi). Perciò manager e politici sono i veri demiurghi del capitalismo relazionale che ha trasformato l'economia e la società negli ultimi 15-20 anni.
Hanno mostrato capacità di modernizzare, soprattutto utilizzando leve finanziarie e tecnologiche, ma l'importanza della relazionalità ha spesso inquinato - con l'arbitrio e responsabilità diverse - le regole di mercato. Oggi tutto questo è evidente nel resoconto degli errori commessi dai superpoteri e dai leader della finanza, così come è evidente il malessere democratico e la sfiducia verso la politica che affliggono i cittadini in quasi tutto il Vecchio Mondo.
I risultati di questa classe dirigente sono tutt'altro che incoraggianti e aprono importanti interrogativi e scetticismi sugli eccessi del capitalismo relazionale (e del mercato politico) e sulla delega fiduciaria. Sarà difficile affrontare una crisi finanziaria con i livelli di sfiducia che colpiscono questi decisori in campo economico e politico. Dalle nostre ricerche sulle classi dirigenti italiane (primo e secondo Rapporto Luiss) si ricava che i Ceo di banche e finanza, così come i politici, sono in debito d'ossigeno in termini di fiducia accordata loro dalla popolazione (sotto il 20% per entrambi e circa 10 punti in meno rispetto solo a otto anni fa). Popolazione e classi dirigenti sono poi d'accordo che le reti finanziarie, bancarie e quelle politiche sono tra le dimensioni sociali in cui il merito è meno riconosciuto. La popolazione infine concorda con le classi dirigenti da noi intervistate che l'oligarchia finanziaria debba in futuro contare meno.
Forse dalle macerie della finanza "feudale" nascerà e si forgerà una nuova classe dirigente. Forse impareremo la lezione di rendere prescrittivo il merito, innanzitutto per coloro che ricevono potere in delega, che andrebbero attentamente valutati, selezionati e non cooptati, com'è accaduto in passato, quando si è guardato più alla fedeltà che alla competenza e all'integrità morale. Ci aspettiamo grandi cambiamenti nel senso di responsabilità delle professioni e delle classi dirigenti emergenti, soprattutto generosità per contrastare la grave situazione che essi hanno contribuito a creare.
c.carboni@univpm.it
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