di Enzo Rullani
Economista della conoscenza
Tra conoscenza sociale e proprietà privata si sta aprendo un contenzioso di portata sempre maggiore. Che può essere descritto (in negativo) come lotta senza quartiere ingaggiata degli Stati contro la pirateria di chi copia o scambia conoscenze senza pagare dazio agli autori, violando le sempre più severe norme sul copyright. Ma che può anche essere visto (in positivo), come emersione di un modo di produrre più aperto e condiviso, in cui un numero crescente di persone co-producono conoscenza, in forme di relazioni e di scambio peer to peer, realizzate su base non mercantile. Non per averne un vantaggio immediato: per generosità, per sentimento di appartenenza alla stessa comunità, per spirito di servizio, narcisismo, orgoglio professionale. Le forme e le motivazioni possono essere tante: la conoscenza condivisa nei nostri distretti industriali, ad esempio, nasce dalla "cooperazione involontaria" tra imprese che si copiano reciprocamente, favorendo la propagazione della conoscenza comune, non perché si amano, ma perché non riescono a difendersi dalla copiatura degli altri.
Rimane aperto il dilemma: si tratta di pirateria o di condivisione? Tra le due idee, il confronto è in atto, ma il suo esito è già segnato: ormai, con il web 2.0, ogni giorno va in scena, a scala mondiale, la creatività in rete di milioni di persone, che usano a piene mani, e senza preventiva autorizzazione, idee, immagini, frasi, simboli messi in rete da altri. È sempre più difficile etichettare questo fenomeno in termini, semplicemente, di illegalità di massa.
Non lasciamoci ingannare dall'apparenza giuridico-formale. Se le leggi si fanno più severe e nuovi congegni tecnici cercano (invano) di fermare la valanga, è perché la costruzione istituzionale basata sull'esclusione proprietaria si sente debole, e vicina a perdere la sua battaglia. Semmai, oggi bisogna pensare a dare istituzioni nuove alla produzione sociale della conoscenza: senza scimmiottare quelle pensate per la proprietà dei beni materiali, che non possono funzionare. Si pensi all'importanza che nel campo della produzione condivisa di software ha avuto la Gpl (General Public License) con cui Richard Stallman ha disegnato negli anni Ottanta la forma giuridica della cooperazione volontaria a progetti condivisi. Non si tratterà di istituzioni anti mercato, o anti proprietà, perché non viviamo nel mondo della generale sovrabbondanza dove tutto può essere gratuito: il lavoro va pagato, e il mercato non è affatto arrivato alla fine dei suoi giorni. Se, come è stato detto (Giorgio Ruffolo) il capitalismo ha i secoli contati, dovrà prima o poi imparare a gestire in forme appropriate la conoscenza di cui si nutre.
Partendo dal riconoscere che, nella società della conoscenza, la produzione di valore economico dipende in misura crescente da una risorsa – la conoscenza appunto – che è intrinsecamente sociale. Per diverse ragioni.
Prima di tutto, la conoscenza è una risorsa che, al contrario dei beni materiali a cui spesso viene (indebitamente) equiparata, ha un costo di riproduzione nullo o quasi nullo. Se una musica di successo viene codificata in un file mp3, non costerà niente farne mille o un milione di copie, con downloads dalla rete, autorizzati o meno. Escludere qualcuno dall'uso del sapere disponibile, per remunerare alcuni anelli della catena produttiva, non è dunque una soluzione ottimale, perché limita la possibilità sociale di sfruttare appieno il potenziale implicito del sapere di cui disponiamo. Le difficoltà che le major incontrano nel farsi pagare diritti sulle loro proprietà artistiche sono la spia di questa incongruenza: l'estensione ai beni immateriali di una istituzione (la proprietà) che era stata pensata in passato per beni materiali "naturalmente" scarsi. La pirateria è solo la punta dell'iceberg, insomma.
La seconda ragione è che la conoscenza prende forma non in condizioni di isolamento, ma all'interno di un circuito di condivisione: chi produce qualcosa di nuovo – lo scienziato, l'imprenditore, l'artista – parte sempre da una base di sapere precedente che ha ricevuto da altri, e che solo in parte minima ha pagato, comprando la conoscenza utile sul mercato. La conoscenza, insomma, è un processo, il frutto di una filiera in cui, da un lato, ricevi e dall'altro, dai. Il brevetto o il copyright pretendono di assegnare all'autore l'uso esclusivo di tutti i moduli cognitivi che ha usato per costruire la sua opera. Privando gli altri – magari i produttori originali di quegli stessi moduli – del diritto di usarli senza il suo consenso. Un assurdo? Certo, ma difficile da dirimere: come si fa infatti a separare i singoli contributi entro una storia che è sempre ricca di contaminazioni, rielaborazioni e "debiti intellettuali" poco e mal riconosciuti?
Si può discutere di quale sia l'equa distribuzione dei frutti tra i diversi soggetti che hanno contribuito al risultato finale. Ma non è questo il punto. Ciò che conta è che – qualunque sia la soluzione adottata – essa mantenga aperto il canale di accesso al sapere sociale che è la premessa da cui parte la produzione di qualunque nuova conoscenza. Oggi, come si comincia a vedere nel campo del software, delle biotecnologie, dell'arte o della simbologia (marchi, logo), ogni nuova creazione rischia invece – anche senza saperlo – di violare diritti proprietari di qualcun altro, che si farà vivo con gli avvocati al momento debito. Un vero disastro per una legge che doveva favorire l'innovazione, e che potrebbe invece finire per ostacolarla bloccando o rendendo "pericoloso" l'accesso al sapere sociale disponibile.
La rete ha cambiato il nostro modo di produrre "abilitando" l'intelligenza diffusa di lavoratori, consumatori, artisti e piccoli produttori che hanno bisogno di uno spazio sicuro di public domain per esprimere la loro forza produttiva. È questa la base della nuova alleanza, da stabilire, tra istituzioni e conoscenza, partendo dalle esperienze positive che già esistono. Sono sempre più diffusi i progetti destinati al mercato, che usano con profitto il sapere diffuso per testare e mettere a punto i nuovi prodotti con il contributo di fornitori, utilizzatori o fan che ne decreteranno, alla fine, il successo o il fallimento. Il problema non è di portare sul mercato tutti questi contributi, ingessando in norme rigide di proprietà il flusso spontaneo delle idee, ma di sviluppare per ciascun attore di questa filiera cognitiva motivazioni adeguate, corrispondenti all'idea di condivisione che ha e che vuole sia riconosciuta dagli altri. In questo modo possono nascere le nuove istituzioni della proprietà sociale, tornando alla ricchezza culturale e alla densità sociale che aveva, in passato, la tradizione dei commons. Una tradizione che va riscoperta, per dare forma compiuta alla ricchezza emergente dalla produzione in rete.
Un patrimonio che si fa più pubblico
C'è diritto e diritto. Nel 2009 diventano di pubblico dominio le opere di autori scomparsi nel 1939, a 70 anni dalla loro morte: i diritti di utilizzazione economica terminano, però, dal primo gennaio del 2010 (legge 633 del 1941). Per le canzoni, invece, il diritto di fonogramma dei produttori discografici finisce dopo 50 anni dalla "fissazione del supporto" (per esempio, un disco in vinile), "liberando" i brani del 1959.