DI ROBERTO VERGANTI
Professore al Politecnico di Milano e presidente di PROject Science
«Ma quella è l'etnografia della banalità!», ne uscì fuori Harald Gründl, designer dello studio Eoos. Aveva appena concluso il suo discorso alla Design Week di Vienna lo scorso 9 ottobre. Nella pausa tra un intervento e l'altro discutevamo su come ultimamente il dibattito sull'innovazione, soprattutto nei paesi anglosassoni, sia diventato mono-tono. E la singola nota su cui battono tutti è che l'innovazione deve essere user-centered. Che per fare innovazione devi prendere una macchina fotografica e immortalare i clienti mentre usano i prodotti, alla ricerca di spazi di miglioramento. E più ti avvicini ai clienti e più potente è lo zoom, e meglio è. Tecnicamente si chiama etnografia, proprio in quanto simile ai metodi usati dagli etnografi per studiare le culture esotiche. Ed è qui che Harald non ha saputo trattenersi ed è sbottato.
Nessuno oggi ha il coraggio di mettere in discussione l'innovazione user-centered. L'imperativo è che l'innovazione nasca avvicinandosi ai clienti con la lente d'ingrandimento per scoprirne i bisogni non soddisfatti. Con il risultato che molte imprese adottano lo stesso processo, producendo tutte lo stesso tipo di innovazione. Un'innovazione microincrementale, priva di identità, di cui i clienti si innamorano raramente, e che è rapidamente e inesorabilmente superata dai competitor che producono il prossimo miglioramento, in una rincorsa spesso senza un senso compiuto (vi risparmio l'altro imperativo: il brainstorming, il cui assunto è che l'innovazione nasca dalla rapida generazione di migliaia di idee).
Ma vi sono imprese che non si adeguano agli imperativi dominanti e che esplorano, con successo, strade alternative. Parlo, oltre ai tre esempi citati in queste pagine, di imprese quali Apple, Nintendo, Bayer, Herman Miller. E tra queste abbiamo anche una nutrita schiera di imprese italiane: Alessi, Artemide, Kartell, StMicroelectronics. Quando puntano all'innovazione radicale, quella che costruisce il business di domani, queste imprese invece di inseguire il mercato fanno proposte. Si allontanano dai clienti, per non essere intrappolate nel miglioramento di ciò che già c'è, e propongono una loro visione. Nintendo non avrebbe mai creato la Wii osservando gli adolescenti giocare con videogiochi nelle loro taverne. Avrebbe offerto loro ciò che chiedevano: console più potenti (come hanno fatto Sony e Microsoft, che hanno investito parecchio in analisi user-centered dei bisogni). E se Alessi avesse visitato i suoi clienti a casa per vedere come cavavano i tappi dalle bottiglie, avrebbe creato degli utensili più efficienti, non oggetti antropomorfi dal valore affettivo, come l'apribottiglie Anna G. L'innovazione user-centered non mette in discussione i paradigmi esistenti; anzi, grazie ai suoi metodi efficaci, li rafforza.
Come fanno allora queste imprese a creare visioni vincenti? Come fanno a proporre prodotti e servizi con un significato radicalmente innovativo, di cui le persone si innamorano molto più di quei prodotti user-centered progettati a partire dai loro bisogni? Il loro processo si basa su una stretta interazione con quegli "interpreti" – dai ricercatori ai fornitori di tecnologia, dagli artisti ai designer, fino alle imprese che operano in altri settori ma che parlano ai loro stessi clienti – che fanno ricerca su come può evolvere il significato dei prodotti e dei servizi in un contesto socio-culturale. La capacità di queste imprese è saper individuare e attrarre i migliori interpreti prima che lo facciano i loro competitor. Identificando nuovi interpreti outside of the network, cioè dove gli altri non stanno guardando, vengono in contatto con un ampio ventaglio di interpretazioni. Lo sviluppo della visione poi, nasce da un attento processo di ricerca che identifica le connessioni tra queste variegate interpretazioni (un processo descritto nel merito nel mio libro «Design-Driven Innovation», edito da Harvard Business Press, e tradotto in italiano con i tipi di Etas).
Molti manager potrebbero pensare di trovarsi a disagio in un tale processo. Dove sono i test di mercato, i focus group, le statistiche, i brainstorming, e tutti quei comodi salvagente a cui delegare il compito di innovare? Purtroppo questi strumenti valgono quando si lavora su ciò che già c'è. Non su quel che potrebbe esistere. Una nuova proposta invece lascia il segno. Cambia il senso delle cose. E richiede un salto progettuale e una presa di responsabilità da parte del management. Ma non si cada nell'errore di pensare che non ci sia un processo. C'è eccome. Semplicemente è diverso e meno visibile di quanto una certa finta retorica sull'innovazione ci ha propinato negli ultimi anni. In una biografia su Steve Jobs si racconta come secondo un marketing manager di Apple le ricerche di mercato dell'azienda si fondassero su «Steve che guardandosi allo specchio ogni mattina si chiedeva cosa volesse». Ciò che quel marketing manager non ha colto è che Steve Jobs non guarda in uno specchio magico. Ma semplicemente nello specchio della sua cultura personale.
La cultura personale è un bene enorme. È costruita e nutrita in anni di esperienze, immersioni, interazioni con interpreti innovativi e radicali. Molti manager, imbevuti dei modelli manageriali dominanti, sono educati a trascurare o addirittura a temere tutto ciò che sfiora la sfera della cultura personale. E così perdono l'opportunità di fare leva su uno dei beni più preziosi che ognuno possiede. Non bisogna essere spaventati dalla dimensione culturale, di interpretazione e visione progettuale, bensì trarne vantaggio per vedere cose che altri non vedono. Per fare nuove proposte, che abbiano più senso.
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Metamorfosi di Artemide. Il settore dell'illuminazione tradizionalmente concepisce le lampade come delle sculture moderne: le persone in genere le scelgono in funzione del loro stile e di come si ambientano nei loro salotti. Metamorfosi, famiglia di prodotti lanciata da Artemide nel 1998, ribalta completamente questo significato. Si tratta di un sistema sofisticato di illuminazione che emette un'atmosfera creata da luce colorata, controllabile e adattabile in funzione dell'umore e delle necessità del proprietario. La visione di Artemide è che la luce dell'ambiente influenzi significativamente lo stato psicologico e le interazioni delle persone. Da qui la creazione di un sistema che possa emettere una luce "umana", in grado di farle sentire meglio e di facilitarne le dinamiche di socializzazione.
M-Pesa di Safaricom. Nel marzo 2007 la società keniana di telecomunicazioni Safaricom ha creato il servizio M-Pesa. Si tratta di un servizio sviluppato in collaborazione con Vodafone che permette alle persone di usare il cellulare per trasferire il denaro ai propri cari, anche se non si dispone di un conto in banca. Una proposta di un nuovo significato radicale, inatteso, applicata a uno strumento considerato tipicamente di comunicazione, trasformandolo in servizio bancario. Un significato che nasce da un'attenta interpretazione delle dinamiche socio-culturali in Africa, dove il telefonino è più diffuso, e spesso più fidato, delle istituzioni finanziarie. In due anni il servizio ha raccolto 6,5 milioni di utenti.
Aeron Chair di Herman Miller. Concepita come «macchina per sedersi» più che come sedia bella ed elegante. La sua caratteristica più eclatante è che non è né tappezzata né imbottita. Il suo schienale e la sua seduta sono invece fatti di una rete in materiale sintetico che si adatta alle persone, minimizza la pressione e massimizza l'aerazione della schiena. La retinatura traforata del corpo della sedia rende la sua struttura e i leveraggi ancor più visibili; rafforzandone il significato di macchina ergonomica. Un prodotto che ha colto i clienti di sorpresa: «Quando abbiamo mostrato un primo prototipo ai consumatori», dice Bob Wood di Hermann Miller, «mi hanno chiesto se avrebbero potuto vedere il modello finito e imbottito invece che il prototipo incompleto. Non potevano credere che quella fosse la versione finale». Naturalmente, una volta lanciata sul mercato l'Aeron è diventata una delle sedie da ufficio più ambite, prendendo il posto delle classiche sedie di rappresentanza in pelle.
Whole Foods Market. Nel 1980 apre negli Usa la catena di supermercati biologici Whole Foods Market. A differenza dei primi supermercati bio, che avevano come target un piccolo segmento di fanatici pronti a rinunciare ai piaceri del buon cibo pur di avere un'alimentazione "pulita", e in cui ci si sentiva come asceti di una piccola setta che stanno facendo penitenza, Whole Foods Market ha proposto una visione radicalmente diversa: i suoi supermercati celebrano il piacere dei sensi. I prodotti vengono allestiti come se fossero su un palco: una festa di colori e di profumi irresistibili. In alcune sedi il cliente può perfino ricevere un massaggio mentre un assistente del supermercato si prende cura della spesa. Whole Foods Market ha cambiato radicalmente il significato della sana alimentazione da una scelta severa, auto-punitiva, a una edonistica, e la spesa da un dovere domestico a un'esperienza rinvigorente. È oggi l'azienda a crescita più rapida negli Usa nel business della vendita di generi alimentari.