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Newsletter del 20 Gennaio 2009

Le paure delle piccole imprese, dove la crisi pesa il doppio

di Daniele Marini


La situazione economica e finanziaria dell'Italia non consente, oggi più che mai, sbandate rispetto a un percorso volto al risanamento. A maggior ragione se si considera l'ingombrante fardello di un debito pubblico che ci colloca in fondo alla graduatoria europea e vincola tutti i possibili movimenti. I recenti provvedimenti anti-crisi adottati dal Governo vanno in questa direzione e il ministro dell'Economia Giulio Tremonti, con non poche difficoltà anche fra colleghi e alleati, ha assunto un ruolo di timoniere che cerca di tenere salda la direzione di un recupero di competitività dell'Italia.
A Tremonti va dato atto di svolgere un arduo compito di guardiano rigoroso dei conti pubblici, dovendo guidare un'imbarcazione che ha diverse falle e una ciurma (in questo caso rigorosamente bipartisan) rumoreggiante, sempre pronta a chiedere più risorse anche oltre il possibile e a difendere interessi corporativi. Sarebbe auspicabile, in una fase così delicata, da parte di tutti, manifestare concretamente un senso civico, un'assunzione di responsabilità, un accordo bipartisan sui temi cruciali per l'Italia del futuro, a più riprese richiamati anche dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Ciò non di meno, le condizioni in cui versa la nostra economia aveva alimentato aspettative e poteva richiedere interventi più coraggiosi e tempestivi. Perché la velocità con cui la crisi si manifesta non ha eguali rispetto al passato e, quindi, servono misure più decise, pur rimanendo nei vincoli imposti dal debito pubblico. Osservando e ascoltando l'economia reale, soprattutto le Piccole e medie imprese, si può comprendere il sentimento di sconforto (se non di disorientamento e di malessere diffuso) che le pervade quando si trovano di fronte a provvedimenti con validità retroattiva come quello sugli investimenti sul risparmio energetico (benché sia già stato annunciato un ripensamento), piuttosto che sul tetto posto alla ricerca e sviluppo. O non siano stati presi in considerazione gli interventi sulla rivalutazione degli immobili strumentali, la detassazione degli utili reinvestiti in azienda o la riduzione dei tempi di pagamento della Pubblica amministrazione. Soprattutto dopo avere assistito al fatto che sia stato possibile reperire urgentemente risorse ingenti per ripianare incapacità amministrative, come nel caso del comune di Catania, di Roma o dello stesso caso Alitalia.
È l'asimmetria di trattamento che non è più considerato giustificabile, sono i diversi metri e misure che vengono adottati nei confronti di quanti producono ricchezza, rispetto a coloro che creano ammanchi, a generare sconcerto. Appare paradossale doverlo ricordare nuovamente, ma le piccole e le medie imprese sono il paradigma del nostro sistema produttivo: oltre il 90% del tessuto imprenditoriale è costituito da imprese al di sotto dei 10 dipendenti quale esito di uno spirito imprenditivo familiare diffuso, tanto che poco meno di due titolari su tre proviene dalle fila del lavoro dipendente (e, soprattutto, fra gli operai specializzati).
Un grande capitalismo che non è grosso, fortemente visibile e, proprio per questo raramente giunge alla ribalta, rimane ai margini della considerazione. Non guadagna l'attenzione e le copertine dei settimanali. Eppure non mancano i numeri che ne giustifichino la centralità e l'importanza. Se guardiamo alle medie imprese industriali, studiate da Mediobanca e Unioncamere nel loro ultimo rapporto, queste hanno visto crescere (1996-2005) il loro fatturato complessivo del 58% a fronte di un 37,3% delle sorelle più grandi. Il loro export è cresciuto del 74,4% (47,2% delle grandi), il valore aggiunto del 41,6% (17,3% per le grandi).
È grazie a questi soggetti imprenditoriali e ai loro subfornitori che in questi anni l'economia del nostro Paese è rimasta a galla. E così pure per l'occupazione che in queste imprese è aumentata del 19,3%, mentre quelle di più grandi dimensioni hanno continuato a ridurre i propri organici (-12,8%). A fronte di tutto ciò, però, la tassazione nei loro confronti si attesta al 46,6%, rimanendo costantemente superiore a quella delle sorelle più grandi (33,2%). Non si tratta di contrapporre le Pmi alle grandi imprese, perché nella competizione internazionale contano i rapporti di filiera, le reti lunghe e le sinergie fra attori economici, dove le tradizionali divisioni settoriali e dimensionali perdono di valore. È necessario, però, assegnare il giusto peso e l'opportuno carico in misura proporzionale alla ricchezza generata.
Il calo dei tassi decisi dalla Bce e la diminuzione dei costi energetici costituiscono fattori sicuramente positivi che aumenteranno la liquidità per le imprese, oltre che per i cittadini. Ma ciò si avvertirà in un prossimo futuro. Nel frattempo, le Pmi si trovano a dover fronteggiare uno scenario dove la domanda interna è prevista in ulteriore calo, i mercati internazionali rallentano, gli istituti di credito hanno aumentato i costi e in taluni casi hanno reso più selettivi gli affidamenti, i portafogli ordini si riducono temporalmente (il 30% ha commesse per 1 mese, un altro 30% circa fino a un massimo di 3 mesi).
Ciò non di meno, le imprese rischiano e sono sul fronte quotidiano a fare i conti con la concorrenza internazionale. Per questi motivi, nel dibattito parlamentare che seguirà, sarà fondamentale realizzare aggiustamenti, reperire risorse economiche e individuare qualche intervento più deciso, pur in un'ottica di responsabilità generale, che offra elementi consistenti di fiducia alle Pmi: perché essa si genera, se si attribuisce fiducia anche agli interlocutori. Sarebbe un segnale importante. Aiuterebbe le Pmi a sentirsi meno sole in questa situazione d'incertezza, vedrebbero riconosciuta la dignità sociale del fare impresa. Soprattutto, riceverebbe alimento l'orientamento e la spinta imprenditoriale diffusi, quella "imprenditività" che è una caratteristica peculiare del nostro Paese, sulle cui fondamenta abbiamo costruito la nostra crescita.
daniele.marini@unipd.it

 
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