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Newsletter del 22 Giugno 2009

I brevetti del signor Brambilla

Paolo Bricco
MILANO
«Nel 2007 abbiamo completato un programma di ricerca iniziato cinque anni prima. E mi sono detto: fammela proteggere, questa cosa. Ora abbiamo quattro brevetti europei riconosciuti e 16 depositati a Monaco. Per lo più nelle tecnologie pulite per l'auto. A gennaio dell'anno scorso, il mio avvocato di Shanghai mi ha convinto: ora li abbiamo anche a Pechino. Là, mica gli interessano i brevetti non registrati in Cina».
Giuseppe Ranalli, titolare della Tecnomatic di Corropoli in provincia di Teramo, è uno specialista di ingegnerizzazioni. La sua società, che l'anno scorso ha fatturato 27 milioni di euro, è una piccola impresa a buon contenuto tecnologico, parte di un fenomeno sommerso che sta diventando sempre più visibile nelle statistiche dell'innovazione.
Secondo Unioncamere, che ha elaborato i dati dello European Patent Office di Monaco di Baviera, dal 1999 al 2007 si sono contati 31.898 brevetti italiani: nel 1999 erano 2.809, nel 2007 sono diventati 4.284. Un trend di crescita positivo. Stando alla Banca d'Italia che ha adoperato numeri dell'Ocse, nel lontano 1981 a Monaco erano depositate 1,4 domande di brevetto italiane ogni centomila abitanti. Ventiquattro anni dopo, nel 2005, sono diventate 7,8: una cifra molto più alta della Spagna, modello tanto vagheggiato che si ferma a 2,9, e non troppo distante dall'8,6 della Gran Bretagna, che ha sperimentato la deindustrializzazione ma che resta forte nelle biotecnologie e nella farmaceutica, settori ad alto tasso di brevettazione. La Francia ha 12,7 domande di brevetti ogni centomila abitanti: in venticinque anni, è cresciuta di una volta e mezza, mentre il nostro Paese è quasi quintuplicato.
L'idea corrente è che i brevetti siano esclusivo patrimonio della grande impresa. Dunque, in un periodo caratterizzato dalla fine dei grandi gruppi privati e dell'economia pubblica di pesante impronta Iri, questo trend ascendente non si spiegherebbe. «In realtà – osserva Massimiliano Granieri, docente di Management of Intellectual Property Rights alla Facoltà di Economia della Luiss Guido Carli – un buon 60% dei brevetti europei è depositato da piccole e medie imprese. Certo, devono essere strutturate e attive in segmenti a contenuto tecnologico medio-alto. Ma il fenomeno è innegabile». Tanto più da quando, lentamente, si va costruendo un rapporto meno episodico fra la ricerca universitaria e il business: «Come è successo con i 18 spin-off dell'Università di Ferrara. Camminano tutti sulle loro gambe. Nove operano nella farmaceutica, gli altri nell'informatica e nella fisica applicata», dice l'economista Patrizio Bianchi, rettore di quell'ateneo.
Ma non c'è solo questo. C'è di più. «Le statistiche sui brevetti sono fondamentali – riflette Raffaello Vignali, deputato del Pdl e vicepresidente della Commissione Attività produttive – , ma non bisogna dimenticare che si tratta di un rilevatore che per definizione sottostima la carica innovativa delle Pmi. Le aziende della nostra subfornitura realizzano innovazioni taylor made, insieme ai loro committenti, spesso nascondendole agli altri. Molto più essenziale è la velocità di realizzazione».
Su 350 aziende aderenti alla Compagnia delle Opere, di cui Vignali è stato in passato presidente, il 75% ritiene di nessuna importanza il brevetto per proteggere l'innovazione di prodotto, mentre una quattro giudica fondamentale la segretezza. «E il paradosso – continua Vignali – è che brevettare significa rendere note informazioni e specifiche tecniche. Oltre a sostenere spese non irrilevanti: più o meno 100mila euro all'anno per brevetto, di cui 20mila per il deposito e 80mila per le traduzioni in tutte le lingue dell'Unione europea. Per non parlare delle spese legali, quando sorge una controversia».
In ogni caso, si sta rompendo la vecchia visione delle piccole aziende impegnate soltanto nell'innovazione di processo: stando all'analisi della Cdo, se il 42,3% di esse ha effettuato innovazioni di processo, il 50,9% ha fatto innovazioni di prodotto. Una evoluzione confermata dall'imprenditore abruzzese Ranalli: «Quattro dei miei sedici brevetti riguardano prodotti».
Peccato che, in un contesto segnato dalla prevalenza di Pmi sempre più impegnate nell'innovazione più o meno formalizzata, l'industria manifatturiera non ce la faccia ad aumentare la sua capacità di creare valore aggiunto. L'ultimo calcolo della Banca d'Italia è desolante: nel 2000 l'industria produceva valore aggiunto per unità di lavoro pari a 47.394 euro; nel 2008, è rimasta ferma a 47.812 euro. Fra i servizi, l'intermediazione finanziaria è passata da 80.942 euro a 96.826 e perfino la pubblica amministrazione è salita da 41.420 euro a 48.487.
«Il problema – nota Bianchi, per dodici anni direttore della rivista di area prodiana "L'Industria" – è che la specializzazione italiana resta fondata in prevalenza su attività a valore aggiunto medio-basso. Ci sono schegge di innovazione che, al di là della dimensione d'impresa, incominciano a muoversi rapidamente dentro al nostro tessuto produttivo. Ma ci vorranno tempo e una politica industriale mirata perché cambino il corso delle statistiche sul valore aggiunto del nostro manifatturiero».
paolo.bricco@ilsole24ore.com
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