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Newsletter del 22 Giugno 2009

«Vince chi ha riorganizzato la filiera»
di Marco Alfieri

«La situazione è ancora critica, non dobbiamo nascondercelo, però...». Daniele Marini, direttore della Fondazione Nordest, scorre i numeri freschi freschi dell'ultima analisi “La congiuntura del Nord-Est” che ha curato per conto della Cassa di risparmio del Veneto (Gruppo Intesa Sanpaolo) e si lascia andare a ragionamenti ambivalenti. «Le prospettive per il primo semestre 2009 – dice – appaiono ancora improntate al pessimismo. Il 66% degli imprenditori nordestini valuta, infatti, in flessione la produzione delle proprie aziende. Nel contempo, però, le vendite all'estero vengono giudicate normali da un'impresa su due, nonostante il rallentamento del commercio mondiale». Insomma un prerequisito importante per sperare che il Nord-Est, quindi un pezzo importante di manifatturiero italiano, possa ripartire ancora una volta, l'ennesima dopo l'ingresso della Cina nel Wto, dall'export.
«Anche perché la recessione coinvolge tutti i settori e le dimensioni d'impresa, con una coda peggiore per Pmi e microimprese, la filiera dell'indotto e della subfornitura. Le medio-grandi imprese tagliano le commesse e l'ultimo anello della catena soffre di più, ovvio».
Se questo è il quadro macro, «la situazione per ora è ancora sotto controllo – prosegue Marini –. Le imprese hanno ridotto i giri del motore utilizzando la cassa integrazione, dando fondo alle scorte e al magazzini e alla liquidità accumulata negli anni passati». Il punto vero è capire quanto durerà la recessione. «Se resta contenuta ancora in pochi mesi gli ammortizzatori possono reggere. Ma se dovesse prolungarsi oltre, allora il rischio che dopo l'estate molti capannoni chiudano diventerà reale. E le ricadute saranno tutte sui lavoratori». Dunque l'estate come spartiacque. Nel settembre 2008 si tornò dalle vacanze e si capì che la crisi era vera e avrebbe morso in profondità. Il settembre 2009 potrebbe invece rappresentare il giro di boa. O si riparte o si affonda.
«Qualche segnale di ripartenza però si coglie», precisa Marini. Soprattutto tra quelle imprese che negli anni passati, a cavallo del 2004-2005, hanno completato almeno due operazioni. Uno. «Si sono riposizionate su un valore aggiunto più elevato dei propri manufatti, investendo nel marchio, nella tecnologia, nel brand, nel servizio al cliente o nella comunicazione. Incorporando cioè valore immateriale nelle proprie produzioni, mescolando manifattura e valore terziario».
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Questo vale per le medie più strutturate fino al marmista che ti viene a posare il pavimento a casa. Due. «Hanno avviato una riorganizzazione produttiva per filiere. Chi lo ha fatto non a caso ha registrato le migliori performance».
Naturalmente restano sul tappeto altri nodi ineludibili. Da un lato l'esigenza di una maggiore capitalizzazione delle imprese, «per spingerle a investire maggiormente in tecnologia e macchinari e ad avere un rapporto più solido con le banche». Dall'altro «l'incentivo a costruire alleanze e aggregazioni con altre imprese». Questo richiede un salto culturale per il nostro piccolo capitalismo, spiega Marini: «Il proprio vicino non è sempre e solo un competitor ma può essere un prezioso alleato per meglio sviluppare i propri prodotti». Un salto che dovrebbe aiutare i padroncini a superare la soglia psicologica del 51%, aprendosi a risorse pregiate.
Risultato: «La crisi, lo vediamo dalle nostre rilevazioni, sta spingendo positivamente molte imprese alla riorganizzazione produttiva e alle aggregazioni. Quel che ancora non si vede, forse per il rinculo causato dalla sbornia finanziaria che ha portato alla crisi globale, è la volontà di aprirsi al mercato dei capitali per finanziarsi e per implementare gli investimenti». Per ora vince la ricentratura intorno alla figura del l'imprenditore deus ex machina che non si fida delle banche e della finanza. «Ma così – conclude Marini – si rischia di buttare via il bambino con l'acqua sporca».
Marco Alfieri
© RIPRODUZIONE RISERVATA

 
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