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Newsletter del 26 Aprile 2010

Nuove idee per progettare la ripresa

di Alberto Bassi
Green, real, sustainable, normal: sono certo questi alcuni fra gli aggettivi "nuovi" per il design oggi. In particolare se lo si riconduce al suo significato specifico, alla obbligata e profonda relazione con impresa, economia, mercato, utilizzatore, consumo. Spostare insomma con decisione il timone del fare progettuale verso esigenze e situazioni concrete e reali, a cominciare da sostenibilità e usabilità delle cose e del mondo, fino a public e social design. Perché di fronte alle radicali e veloci trasformazioni dei sistemi economici, tecnologici, produttivi e sociali in atto, l'impressione è che talvolta designer e imprese (e istituzioni di riferimento) fatichino a stare al passo.
Il tema resta come agire, progettare, produrre – riprendendo sollecitazioni di esperti e studiosi – dentro la «società post-crescita», indirizzarla e renderla compatibile in sostanza con un'«economia del limite».
È difficile sostenere che la crisi dell'automobile – ed è il caso più eclatante, ma vale per molto altro, dal furniture al fashion – non abbia anche a che fare con oggettive carenze di pensiero attorno a un altro modello di mobilità, a nuovi prodotti, sistemi e servizi, fra l'altro, attenti a sensibilità di mercato (nuove fonti energetiche, consumi, sicurezza...), del resto già affermate e verificate in altri ambiti, come ad esempio il consumo alimentare. Vuole certo dire qualcosa che nella grande e piccola distribuzione i prodotti green, a chilometro zero, di tradizione e qualità (anche un po' più cari) sono presenti con successo crescente.
D'altro canto, come sostiene Chris Anderson, la «coda lunga» dell'economia, ovvero l'emergere di inedite opportunità in relazione alla massa dei mercati aperta dalla new&net economy e dalle new technologies, offre in continuazione – in particolar modo nelle nicchie – nuove e significative possibilità.
Le questioni appaiono rilevanti e si manifestano con urgenza a fronte dei cambiamenti che stiamo attraversando, compresa la crisi – strutturale o congiunturale poco importa – che ha messo in forte affanno imprese e lavoro. Più occasionalmente le riflessioni ritornano per gli annuali Saloni, o Milano design week che dir si voglia, al debutto domani. Un appuntamento che oltre a essere fondamentale sismografo commerciale e culturale dello stato dell'arte del design italiano e internazionale, evidenzia al meglio, nell'eccesso e nella quantità, pregi e limiti dell'attuale intendere e praticare la disciplina. Assieme alla corretta (ma talvolta acritica) glorificazione delle «magnifiche sorti e progressive» del made in Italy; a fianco di alcuni incoraggianti segnali di trasformazione verso un'offerta selezionata e di qualità (ad esempio nel Fuorisalone con l'emergente area Ventura-Lambrate), trovano ancora largo spazio manifestazioni più estemporanee e immediatamente appaganti (legittime ma che sfoggiano soprattutto arbitrio e eccezionalità), non sempre utili alla comprensione del ruolo e significato contemporaneo del design.
Le situazioni e i protagonisti più avanzati nel mondo stanno percorrendo direzioni differenti. A Londra lo scorso anno sono state allestite due mostre: Design Real curata da Konstantin Grcic alla Serpentine Gallery e Less and more al Design Museum. Senza dimenticare ancora, al Cooper-Hewitt di New York, Design for a living world .
La prima esponeva oggetti veri della vita quotidiana di corretto progetto (un amo da pesca, una maschera da saldatore assieme a lampade, automobili eccetera); la seconda (ri)sdoganava Dieter Rams e la Braun, un tempo vituperati interpreti del good design ora anche ispiratori di alcuni delle linee più significative del design: a cominciare da Apple (una delle poche high tech company con bilanci positivi). Concreto e ben fatto insomma, lungo un filone di cui parlavano già Jasper Morrison e Naoto Fukasawa con la loro idea di "super-normal", elogio agli oggetti durevoli e senza tempo fino all'anonymous design (documentata anche in un'esposizione alla Triennale di Milano nel 2007). Fra l'altro proprio la questione della «vita delle cose», il nostro rapporto con gli artefatti quotidiani è stata di recente utilmente oggetto di rinnovate attenzioni di discipline culturalmente limitrofe a quella del progetto: filosofi, semiologi, sociologi, antropologi e storici.
Nel frattempo continua la mutazione genetica degli assetti delle imprese del design italiano, in faticosa fase di rinnovamento generazionale, gestionale ed economico. Alcuni segnali recenti indicano strade diverse; da una parte l'ingresso di Luceplan, uno dei marchi prestigiosi del lighting italiano, nell'orbita della multinazionale Philips, dall'altra l'uscita coraggiosa, dopo un transito non sempre facile, di Alias dal gruppo Poltrona Frau oppure i movimenti di imprenditori attorno a una storica azienda di punta dell'ufficio come Tecno. Dopo una prima fase d'interessamento dei fondi d'investimento e di nuovi imprenditori per le imprese del design – o solo per i brand –, sembra insomma auspicabile l'emergere di un'attenzione più oculata e sensibile alle specificità del settore. Certo la congruità dei dimensionamenti anche finanziari per affrontare il mercato globalizzato impone altre grandezze, investimenti, organizzazioni, competenze, strutture R&D e risorse umane rispetto a quelle, per scelta o necessità, tradizionalmente limitate delle Pmi italiane.
La comprensione dei meccanismi complessivi del sistema socio-tecnico ed economico è divenuta prerequisito chiave oltre che per le imprese anche per i designer, per agire in direzione dell'innovazione (tipologica, tecnologica, funzionale, estetica eccetera), dunque di un intervento reale. Un percorso indispensabile questo per ragionare con concretezza sul contributo sostanziale e necessario dell'operare progettuale dentro il contesto economico e sociale, rimettendo a fuoco uno specifico culturale e disciplinare, che talvolta pare essersi un po' smarrito. Ovviamente considerando le condizioni "liquide"della Surmodernità (per dirlo con Marc Augé), del superamento dei rigidi confini di campo e delle possibili contaminazioni e ibridazioni, che non possono però trasformarsi in alibi potenzialmente portatore di estraneità fra progetto e contesti. Perché questa modalità finisce per relegare il design (non diversamente da quanto accade nell'architettura, in verità) in un territorio in sostanza marginale: da una parte di sudditanza ad appiattiti meccanismi di mercato, dall'altra di ossequio a modelli comunicativi fondati soprattutto sull'autoreferenzialità del progettista, archi o designerstar che sia, o dei media stessi.
Il discorso appare di sicuro un po' noiosetto, con qualche "preoccupante" implicazione etica, ma ormai da tempo improrogabile per un corretto intendere e rivolgersi ai molti pubblici destinatari degli artefatti estetici contemporanei.
La ricreazione è (da tempo) finita.
© RIPRODUZIONE RISERVATA


LA KERMESSE


Milano capitale per sei giorni

Da domani a lunedì 19 aprile, nel quartiere fieristico di Rho (Milano) ritornano i Saloni, protagonisti internazionali del settore arredo-casa, con le biennali dedicate alla cucina e al bagno. Oltre 2.500 gli espositori, su 211.500 metri quadrati. Ma tutta la città di Milano sarà un'esposizione di oggetti di design, sparsi in centinaia di eventi FuoriSalone. Saloni e FuoriSalone attireranno diverse centinaia di migliaia di visitatori.

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