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Newsletter del 23 Maggio 2011

Diventare grandi? «No, grazie»: la fascia media sfugge al listino
di Antonella Olivieri

Alla taglia media va stretta la Borsa. Su oltre 4mila imprese di medie dimensioni, censite dall'ufficio studi di Mediobanca, meno di venti sono quotate a Piazza Affari. Parliamo di società con fatturato compreso tra i 15 e i 330 milioni e un organico di 50-499 dipendenti che sono la punta di diamante dell'industria italiana: solo un quarto ha i conti in rosso, quelle che guadagnano in proporzione più delle grandi, hanno un tasso di fallimento limitato a 2 su mille, riescono a sfondare all'estero e si autofinanziano gli investimenti. E non basta: oltre la metà (il 53,7%) è investment grade, con un rating superiore a BBB-, mentre solo l'8% ha voti inferiori a B+.
In altre parole le medie imprese avrebbero le caratteristiche giuste per andare in Borsa e per piacere alla Borsa, ma, almeno in Italia, non succede nè l'uno nè l'altro. Ogni anno dal bacino delle 4mila medie imprese ne escono 70-80 che diventano medio-grandi (ricavi fino a 3 miliardi, con più di 500 dipendenti). Ma la Borsa non le intercetta e oltre la metà finisce per essere catturata da società di maggiori dimensioni: il 37,9% di quelle che diventano "grandi" viene assorbita da gruppi italiani, il 17,7% da gruppi esteri. Se per crescere tentassero la strada del listino, Piazza Affari potrebbe avere una quarantina di matricole in più ogni anno e le debuttanti avrebbero maggiori chance di restare indipendenti: oggi solo il 36,9% delle emergenti ce la fa, mentre il 7,5% finisce a portare i libri in Tribunale.
Occasioni mancate, per il listino e per le aziende, che restano a crogiolarsi nel loro comodo nido o non riescono a spiccare il volo come dovrebbero. Ma uno dei principali motivi per cui in Borsa non ci vanno è proprio perchè non vogliono crescere. Preferiscono presidiare la loro nicchia, con l'abilità "artigianale" che consente di spuntare prezzi di vendita mediamente superiori del 6% a quelli dei concorrenti meno qualificati. Caratteristiche che sono apprezzate oltreconfine dove raccolgono i frutti del loro approccio al business più che nell'orticello di casa. Basti pensare che dal '99 al 2009 l'export delle medie imprese è aumentato del 58,9% – a un tasso annuo del 4,7% – e cioè quasi il doppio rispetto alla crescita del fatturato domestico che, nello stesso periodo, è stata del 30,2%, il 2,7% all'anno. Non c'è gara con le big dell'industria tricolore che all'estero sono avanzate al passo del 2,9% all'anno, aumentando l'export del 32,6 per cento.
Ma più che la sindrome di Peter Pan, la risposta alla domanda "perchè non si quotano?" è anche la più banale: perchè non ne hanno bisogno. Con il proprio patrimonio sono in grado di far fronte interamente agli investimenti in beni durevoli e anche a quelli finanziari (pochi in proporzione). Fatto cento il valore del totale dell'attivo "tangibile" (marchi, avviamenti e altre attività immateriali escluse), i mezzi propri delle medie imprese italiane sono pari al 46,8%, più degli attivi immobilizzati che sono il 44,1%. Ben diversa la struttura delle multinazionali tricolore, dove i mezzi propri valgono meno del 29% dell'attivo tangibile e le immobilizzazioni contano invece per quasi il 55%. È vero che rispetto alle grandi, le medie sono più esposte nei confronti delle banche: i debiti a breve rappresentano il 32,5% del totale dell'attivo tangibile contro il 26% delle altre. Ma la struttura finanziaria è coerente con il fatto che l'attivo è rappresentato soprattutto dal capitale circolante (crediti verso clienti e magazzino) che vale il 55,9% del totale e oltretutto è quasi il doppio, per ammontare, del debito a breve termine: non c'è pericolo che non rimborsino e infatti le medie sono premiate da un costo di finanziamento nettamente inferiore a quello delle altre categorie. Ai dati del 2008, il costo del debito che era del 10,3% per i maggiori gruppi italiani e del 7,1% per le aziende medio-grandi, era "appena" del 6,5% per le medie. In definitiva, le mid-size non hanno bisogno di ricorrere al mercato per raccogliere capitali, dal momento che i mezzi propri coprono abbondantemente gli immobilizzi in macchinari. E non hanno neppure bisogno di ristrutturarsi finanziariamente, dato che basta il canale bancario a finanziare l'attivo corrente.
Le poche che arrivano al traguardo del listino, in Borsa però non brillano. Dall'inizio del 2005 a fine aprile scorso, la ventina di quotate ha registrato performance negative di quasi l'11% nella media annua, più del doppio rispetto al -5% dell'indice generale Mediobanca di Borsa. In Germania la situazione è opposta: le medie imprese tedesche nello stesso periodo hanno reso il 9% all'anno sopravanzando l'indice di Francoforte di quasi 2 punti e mezzo.
Bassi flottanti rischiano di essere trascurati, e questa è una spiegazione. Lo scarso rendimento delle medie imprese di Piazza Affari trova invece una giustificazione solo parziale nelle modalità di approccio al mercato. Di quelle che hanno promosso un'Ipo negli ultimi anni, solo una ha offerto agli investitori esclusivamente azioni di nuova emissione. In tutti gli altri casi a vendere era anche la proprietà: se i vecchi azionisti monetizzano, i potenziali nuovi azionisti ne ricavano l'impressione che da valorizzare sia rimasto poco. È pur vero che in 9 offerte su 16 l'ammontare dei titoli di nuova emissione – denaro fresco per le casse della società – è stato superiore ai quantitativi offerti dai vecchi soci. Ma il vero motivo è che la punta dell'iceberg che affiora sul mercato è talmente minuscola da non essere rappresentativa: basti pensare che delle 18 società quotate che rientravano nel censimento del 2008, era in rosso il 40% rispetto al 25% dell'universo delle medie imprese e che, a livello aggregato, evidenziavano un'incidenza del margine operativo netto sul fatturato del 2,1%, meno della metà rispetto al 4,9% dell'intero comparto.
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Le caratteristiche

1 Il peso sull'economia
In Italia sono oltre 4mila le medie imprese, con ricavi compresi tra 15 e 330 milioni e un organico tra i 50 e i 499 dipendenti. Il censimento curato dall'ufficio studi di Mediobanca individua la Lombardia come regione più popolata dalle aziende della categoria: da sola dà l'indirizzo al 31% del totale delle medie imprese del Paese. Veneto, Emilia Romagna e Trentino-Alto Adige la sopravanzano però come aree più "vocate" alla media impresa che, nelle tre regioni, domina il tessuto industriale. Il peso sull'industria manifatturiera italiana è rilevante e in aumento. Le medie imprese danno lavoro al 15% degli occupati totali dell'industria, rappresentano il 17% del valore aggiunto (che sale al 25% se si considera l'indotto) e il 18% dell'export.
2 Il limite dimensionale
Negli anni dal '99 al 2008 il numero delle medie imprese in Italia è aumentato di 366 unità, incremento che risulta dal saldo tra 3875 ingressi nella categoria e 3509 uscite. Ma mentre nel periodo ci sono state 3553 piccole che sono diventate medie e 2306 medie che sono diventate piccole, il passaggio a dimensioni maggiori risulta difficoltoso. Solo 654 medie sono diventate medio-grandi e 194, che avevano fatto il salto alla categoria superiore, sono tornate indietro. Delle imprese che crescono, solo il 36,9% riesce a mantenere l'indipendenza: il 55,6% viene invece assorbito da gruppi più grandi, il 7,5% fallisce. La rappresentanza della categoria in Borsa è limitata a meno di 20 società, nonostante più della metà (il 53,7%) delle medie imprese vanti un merito di credito di livello investment grade, uguale o superiore a BBB-.
3 L'anomalia fiscale
L'indagine di Mediobanca rileva che il carico fiscale per le medie imprese è più pesante che per le aziende di maggiori dimensioni. L'aliquota fiscale media, calcolata sull'utile lordo, era nel 2008 (anno dell'ultimo censimento) del 37,8%, superiore al 31,1% delle imprese medio-grandi e al 16% dei maggiori gruppi italiani. A penalizzare le medie imprese, in particolare, è il meccanismo di tassazione dell'Irap che colpisce le aziende a più alta intensità del lavoro. Come appunto le medie imprese che puntano su lavorazioni, tipicamente del made in Italy, che richiedono personale qualificato. Il maggior carico fiscale si riflette in una minor patrimonializzazione rispetto alle imprese della stessa categoria di altri paesi. Mentre infatti per le medie imprese italiane il capitale netto tangibile è pari al 43% del totale dell'attivo tangibile, il patrimonio delle tedesche è pari al 62%, quello delle spagnole sfiora il 60 per cento.

IL RATING

Almeno BBB-

Il 53,7% ha la qualifica di investment grade


I CONTI

75% in utile

Solo un quarto chiude il bilancio in rosso

 
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